Per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia, stesso mare. Già. Ma che fare nel frattempo?
In dirimpetto agli ultimi giorni sgocciolanti di sudore e lavoro cittadino? Quando l’ultimo pensiero non evaporato dal caldo cementifero batte i suoi ultimi colpi alla porta dell’estate, pronta ad aprire vista spiaggia da lì a poco?
In quei momenti sembra che niente possa alleviare il caldo e il bisogno di vacanze. Ma è proprio in questi purgatori dei we prevacanzieri, che si celano le migliori scoperte del nostro stivale. E la montagna, veste questo ruolo con tutto il suo potere naturale.
Basta prendere una macchina e tirare su due amici. Una buona compilation e 3 zaini pronti all’occorrenza di tutto ciò che serve per qualche passeggiata in alta montagna. Voglia di escursione, un pizzico d’intraprendenza e appetito a volontà. Il gioco è fatto. Bè, a dire la verità, è appena iniziato.
Prendendosi un normale sabato e domenica, si può partire comodamente di venerdì pomeriggio. Il luogo comune delle partenze all’alba va bene solo d’inverno, quando le montagne sono innevate ed è preferibile arrivare con il caldo, a neve fresca e splendente.
In viaggio per le ore 16.00, prendendo l’autostrada per Torino, l’arrivo a Courmayeur è previsto per le 18.40. Si, ma non l’arrivo alla nostra destinazione. Courmayeur resta a 1.200 metri circa. Sicuramente fatiscente per la sua urbanistica accogliente e sempre natalizia. Lasciamo che sia meta dei più facoltosi e comodi turisti. Noi puntiamo in alto, ma non di troppo e non di certo per lo stile. Arrivati a 1.500 ci fermiamo, e troviamo la nostra meta. Grazie all’amicizia e all’infinita accoglienza del Guardia Caccia del Monte Bianco, vantiamo l’essere ospiti della sua baita. E per “sua“, non sottolineo il senso di esclusivo acquisto. Infatti, Maurizio, ha acquistato già da anni, parecchio terreno della montagna, e in quel contesto – non dimenticato ma benedetto da Dio per la sua bellezza – ha costruito con le sue sapienti mani, la sua baita.
Incastonata tra le montagne di Rochefort, proprio in piena posterizzazione del maestoso Monte Bianco, la baita spicca con il suo piccolo tetto grigio, i suoi muri di sassi posati a mano e le sue travi a vista di alberi tagliati e segati a braccia. Un vero e proprio spettacolo di ruralità umana. Con il suo timido ma confortevole aspetto, la baita sembra appoggiarsi alla montagna, quasi a chiedere protezione dal caos dei pensieri cittadini.
Appena arrivati, cerchiamo una delle tante gastronomie che condiscono la strada irta e tortuosa che porta a Rochefort. Un po’ di buona carne, il necessario per i due giorni, e ovviamente un buon vino a scelta nella ricca lavagna della Valle d’Aosta. Arrivati in baita, ci sistemiamo e sfruttiamo le rustiche pietre che Maurizio ha costruito per formare una spartana griglia.
Carne cotta con la legna appena tagliata, vino rosso, formaggi del posto e tanta voglia di staccare. Il rilassamento è palpabile e la cornice culla i nostri sospiri con lo sguardo paterno delle montagne e l’abbraccio materno dei prati verdi. Come sapienti genitori, ci mettono a dormire, consegnandoci ad un cielo stellato che nessuna macchina fotografica potrà rendere giustizia. Abituati al cielo con “gli spigoli”. Tra i palazzi di città. Vedere il grande carro e l’orsa maggiore fa tornare bambini, e con quella beatitudine ci regaliamo al sonno, con l’animo già pronto al prossimo giorno.
La mattina ha l’oro in bocca. Non so che sapore abbia l’oro, ma l’aria a 1.500 non è stimabile. Entra nei polmoni con incosciente naturalezza ma è consapevole la sorpresa di quanto sia rigenerante a ogni sua boccata. La giornata è calda e il sole si presenta con tutto il suo calore, schiarendo i primi toni del giorno, come un cantante lirico prima del grande acuto di mezzogiorno. La temperatura, il cielo e la limpidezza della visuale sono il giusto humus su cui muovere i nostri passi. Racchette e scarpe da montagna, zaino, pile e siamo pronti per la nostra destinazione. L’obiettivo è una buona mangiata. O forse è solamente il pretesto per lo spettacolo da esplorare sul cammino per arrivarci.
Destinazione, rifugio Bonatti. Altezza 2.030.
Scendiamo con la macchina ai 1200 e da li partiamo. Splendide le visuali, mozzafiato le viste dei ghiacciai oramai sciolti che disegnano con i loro rivoli d’acqua, nuove rughe sulle montagne. Il dente del gigante e le dame inglesi ci guardano dall’altezza dei loro 4.000 e noi che a ma la pena puntiamo i 2.000, riusciamo a sentirci più vicini e grandi dentro. I prati verdi imperversano come distese di moquette e le tane delle marmotte regalano spesso occhi curiosi verso noi viandanti di quella natura incontaminata. La natura si muove intorno a noi, che per rispetto la percorriamo con lentezza e cerimoniale silenzio. Il respiro si affanna fiero, i polmoni riprendono spessore, la vista si sazia di colori e l’animo trova una pace perfetta se pur effimera.
Arrivati al Bonatti, ci rifocilliamo e cambiamo gli indumenti sudati. Trovato un posto nel caratteristico ristorante, pasteggiamo come da tradizione. Tomino alla piastra, insalata alle mele, moccetta, bruschetta con lardo e crema di castagne. Zuppa di verdure con crostini e polenta con fontina. Vino rosso, acqua e grappa ai mirtilli. Dopo un pranzo “leggero” come questo, siamo costretti a fermarci e sostare come fanno molti, sui prati in dirimpetto al rifugio. Sdraiati sul prato con dinnanzi quella maestosità di montagne, la nostra grandezza si riduce al sentirci piccoli in confronto a cotanta meraviglia. Si spendono leggende su scalatori. Esperti montanari raccontano le loro gesta indicando i punti delle montagne. I bambini giocano, i cani riposano. E noi, tra una risata e l’altra, ci perdiamo discretamente nei nostri pensieri, sperando che un po’ di quella pace possa restare incastrata in qualche tasca e darci onore anche al nostro ritorno, in città.
Tornati dal Bonatti, la sosta per una doccia e un cambio dura giusto il tempo di rendersi conto che la montagna è mutevole nel suo tempo. Le nuvole imperversano minacciose creando dei sombreri sulle teste dei giganti di roccia. I pantaloncini si allungano e le felpe sono d’obbligo. Percorriamo con la macchina qualche chilometro, fino a salire sopra La Thuille. Restiamo sui 1.600 e ci rechiamo in uno sperduto ristorante chiamato Lo Riondet.
Caratteristico e rifinitissimo in ogni suo particolare. Accolti come gente di famiglia, ci accomodiamo e ci affidiamo alle mani sapienti del padrone. Il menù si presenta al tavolo senza nomi fatiscenti o coccarde. Ma ciò che arriva al tavolo è appropriato al periodo…praticamente da olimpiade. Polenta, costine di maiale con fonduta e senape. Costine ai mirtilli, carne di cervo, carne di cacciagione, salsiccia di capriolo, verdure, mele cotte e altro. Il tutto innaffiato da vino rosso. Finale con assaggio di dolci al tagliere e grappa di ginepro. Impossibile pensare di restare leggeri, ma la pienezza dell’anima quando si mangia non è pesabile in chili!!
E così si conclude una giornata di montagna tra la rivitalizzazione dei sensi. Panorami per la vista, campi e fiori per depurizzare l’olfatto, l’aria fresca per accarezzare il tatto e i rumori della natura per riappacificare l’udito. L’estate è vicina, proprio dietro l’angolo. Ma se alzi il naso e hai voglia di precorrere qualche metro, un paradiso si può ancora trovare!!
I Rospi ringraziano Ferdinando Dagostino per testo e foto…
…la prossima volta, prevedere 3 posti in più GRAZIE!!!
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